L'ultima poesia dell'anno

 




L'astro del monte

(stanze per Osvaldo Licini)


                                        a Daniela Simoni


Prologo

"Ma qui, dove più fermo è il passo,
al riparo dal tempo e dalla storia,
posso finalmente aver riguardo
di me e del mio bene,
attardarmi finché non faccia giorno,
ascoltare le voci che ho perduto,
capire il non capito, l'anima del niente,
tutto questo infinito che mi avvolge,
come di un fiume sedendo il greto eterno."

Monti della Sibilla, chiuse porte,
una dolcezza d'aria mai più vista
li abita perenne, fortezza della quiete,
se li aspetto sulla riva del giorno
a una finestra che non ha più età,
se conosco l'odore d'ogni onda,
il paziente viaggiare
lungo le linee della mia matita.

Degli anni attraversati ho la memoria
come d'un gesto fermo nel silenzio
che il mio bastone ritma nell'andare

(...)


Colline della Marca, Chienti e Tenna, 
belvedere del mondo, mio reame
dove il nulla si posa come un telo
sul destino che tocca la mia vita
fin qui dove sono giunto,
scampato dalla vanità del tutto,
ad ascoltare solo il suo fruscio,
il moto eterno delle silenti stelle.

Il colore della luce mi somiglia,
interroga l'esistere compiuto,
è dubbio e insonnia, labirinto e scena,
è me che sento tra materia e incanto,
sul limitare estremo della forma,
notte infinita che l'aurora scioglie.

Chissà dov'è la via che torna indietro,
chissà chi l'ha percorsa?
Fermo alla soglia della casa aspetto
qualcuno che quei passi e mi conosca,
pronunciando il battesimo del nome,
lo stesso con cui firmo le mie vele,
il vento che non muta direzione,
l'enigma dell'alfiere che non parla,
l'angelo che non s'è voltato mai.

"Sorrido piano piano nelle sere serene",
mi sovviene chi ero, il mio numero, il mistero,
la risposta impossibile
all'orizzonte grigio, a nessun mare.

Ti scrivo dalla terra delle madri
dove sono sceso a conservare il lume
che appena di bagliori è chiarità
perché si scorga almeno la certezza
del mio peregrinare senza sosta,
tutto l'affanno che arde senza fiamma,
il segno mai saputo decifrare.


Epilogo

"Vigila, se tu puoi, sulla mia assenza.
Ovunque, dopo tanto, porto il passo
dello straniero senza patria e tetto.
Da questo luogo che non ha ritorno
ora so che azzurro è la distanza
che separa ogni vivere dal niente.
Salva quest'ora vaga del presente,
lo sguardo del pensare, il suo respiro,
il battito d'abisso e paradiso."



Francesco Scarabicchi, "La figlia che non piange", Einaudi, 2021.

Vittorio Bodini: tre poesie da "Tutte le poesie"



Calle del Pez



Che ricamo di fiamme su un vuoto petto!

Che furia d'aghi da lontano,

e battere a ogni porta: "Che sapete

voi del mio viaggio?" (Tante cose

da cui non andavo lontano più che non fossi.)


Ora dovrei sapermi in un quartiere straniero

dove nei vetri dei caffè,

in arancio o celeste,

pallidamente palpitano vite

parallele nel lutto d'una chitarra.

Calle del Pez: esiste una via di questo nome

in un paese d'Europa,

e subito non esiste più,

passa sull'altra sponda, e la finestra,

la finestra ch'io vidi splendere,

e la porta socchiudersi;

e ora son dentro e tutto mi riconosce,

la musica del piano per me s'arresta...




***



Qui non vorrei morire dove vivere

mi tocca, mio paese,

così sgradito da doverti amare;

lento piano dove la luce pare

di carne cruda

e il nespolo va e viene fra noi e l'inverno.


Pigro

come una mezzaluna nel sole di maggio,

la tazza di caffè, le parole perdute,

vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:

divento ulivo e ruota d'un lento carro,

siepe di fichi d'Iindia, terra amara

dove cresce il tabacco.

Ma tu, mortale e torbida, così mia,

così sola, dici che non è vero, che non è tutto.

Triste invidia di vivere,

in tutta questa pianura

non c'è un ramo su cui tu voglia posarti.




***



Quando fu l'ora



Quando fu l'ora

gli orologi avevano perduto la voce

e la pietra lunare del cui bagliore

sinistro si era nutrito il mio esilio

scivolò in mare dove qualcuno

un giorno la troverà, qualcuno che invidio

perché sarà come me triste e ilare

quand'io non potrò più esserlo.

Camminerà sulle rive

dei miei pensieri di ora

credendo d'essere solo, solo e diverso,

e un giorno, dopo una pioggia, in una grotta del cielo

vedrà un celeste limpido e disperato

(limpido e disperato amore mio!)

e lì potrebbe scorgere, mestamente confuse,

le tracce dei miei passi nell'infinito.
 

Carlo Giacobbi: tre poesie da "Abitare il transito"



Cos'altro potrebbe mai fare l'io
-ovunque fosse, qualunque cosa dovesse accadere-
se non farsi padre e madre di sé, riconoscersi

figlio da accudire? Cos'altro per non sentirsi
impastare la bocca dalle ceneri del tempo?
L'uomo è più della sua pena.



***



Non le mappe quasi indecifrabili
della costellazione dei neuroni; non il fatto d'aver
dubitato fosse la tua mano a muovere il pedone

sulla scacchiera; non perché quel giorno la casa
era vuota, né perché ogni secondo
sembrava scandito dal metronomo di gocce



di un rubinetto mal chiuso; e neanche perché
i petali di rosa che ti sfioravano le guance
mutarono così, da una luna all'altra, in foglie

d'ortica. Nulla di tutto ciò potrà mai
definirti, svelare chi tu sia, né impedire
la tua sporgenza di labbra sulla fronte dell'ombra.



***



Solo assentire all'inarrivabile, sottrae
all'idea d'essere stati roba che càpita, evenienza
senza interpello; a dubitare d'ascrivere a dono

il chiaro, il respiro, siamo buoni tutti; e disertare
il campo del dissidio, agitando lo straccio
bianco della codardia, è fin troppo



comodo, e anche se tacita, non fa onore.
Se è di resa che deve parlarsi, sia allora abbandono
alla più ardita ipotesi del prima

e del dopo; credimi, figlia, è questa cerca di senso
che fa umano il durante; basta un grano
di sale a fare sapido l'esistere.


Francesco Scarabicchi: altre tre poesie da "La figlia che non piange"

 





Ti guarderò da questa vita attesa



Ti guarderò da questa vita attesa,

da una fermata d'autobus, da un destino

che mi tiene lontano e sai che sono

più vicino che mai alla tua resa,

occhi che non si sporgono e non danno

luce a chi la chiede,

sguardi che vanno dove tutto è niente,

a una finestra d'angolo, ad un cielo

di musiche e di voci tutto intorno.



***



Ah


Ah, il tempo che passa alle mie spalle,

sulle mie scarpe nuove, sulla pelle,

il giovane tempo che non ho incontrato,

il tempo abbandonato a mia insaputa,

quello smarrito lungo vie contrarie,

il tempo solitario d'ogni notte,

il tempo che mi viaggia e non ritorna,

tutto il tempo del tempo che c'è stato,

il tempo immaginato che perdòno,

quello di un'altra estate che scompare,

il tempo innamorato che è lontano,

il tempo che si volta non si ferma,

il tempo muto che si fa guardare,

il tempo intero che non puoi pensare,

quello che prende solo per lasciare.



***



Città



Scivola l'ombra, svisa, si dissolve in una scia, tra l'Angelo e la Cupola, prima del ponte sopra il fiume, prima d'un crocevia che non ha nome. Così s'annuncia la città, nel tempo che scompare e resta eterno mentre lei sceglie la fuga da una porta o un davanzale, s'annienta e si ricrea fedele come il sogno di un padre, a ridosso dell'occhio di un istante, quel tanto che le basta trattenere prima del precipizio, prima del vuoto in cui s'eclissa la verità che mente, l'unica che conosca il povero segreto delle cose. Essere l'emozione che si ferma al ciglio, il fiore sull'abisso, lo stupore che fa muta la voce e puro il viso. Non si conosce mai l'ora dell'attimo, il momento in cui decide di mutarsi in altro, quel suo morire d'essere, quell'essere che dice sì d'istinto e si consegna alla virtù del caso, ad una sorte ignota, al fioco lume che incendia il cielo della notte quando la via è silenzio e appena avverti delle fontane il fresco del respiro, il volto interrogare chi l'osserva.

Francesco Scarabicchi: tre poesie da "La figlia che non piange"

 




Lungomare


Dopo la breve cena, con i cappotti e il vento che non smette di soffiare dal mare buio di notte e gelo, insieme sul litorale di una città di porto a vivere quel che non siamo, divisi e uniti senza speranza alcuna di sapere cosa saremmo stati, se avessimo potuto. L'orologio segna un tempo che non c'è, né tuo né mio, e il nome che ti chiama è fermo come un treno che non ha stazioni. Posso amarti a quest'ora senza un dopo. T'accompagnerò su una via di frontiera e piano scomparirai lontana. Allora saprò che sono quel che ero prima, tutto il niente che in me già preme e pesa.



***



Qui regna il tempo che scompare


Qui regna il tempo che scompare,
la fuga sua invisibile,
il nome che non resta,
giorno della stagione, breve resa,
limite d'ogni soglia inesistente.



***



S'apre di nuovo ciò che qui su chiude


S'apre di nuovo ciò che qui si chiude,
l'alfabeto contento, i sostantivi,
la sua discreta musica, la vela
che guarda all'orizzonte degli approdi,
al giungere sul limite, al tornare.

Biagio Marin: tre poesie da "Poesie"



I testi vengono qui proposti nella traduzione in italiano.



Ne avevamo quattro di figli:

la casa suonava di loro

come salmi entro la chiesa;

ogni bocca era una fonte di nuova frescura,

di grandi risate, di canti,

di belle parole sonanti che

andavano per l'aria

farfalle di tanti colori,

scintille d'oro.

In tutte le ore,

che gioia sentirli!

Adesso la casa è zitta,

la tavola tagliata

quadra di rovere

ha duri gli spigoli,

e vasto è il piano,

più vuoto per tanto gran bianco.

Bicchieri e due piatti

si perdono, si guardano l'un l'altro,

con un piccolo ridere disperato.

E noi mangiamo in silenzio

la testa ficcata nei piatti,

bocconi sapore d'assenzio.

Tanta gravità disfatta,

dispersa dal vento,

un nuvolo d'oro d'estate,

nebbia di rosa autunnale.

E noi qua soli:

pareti che ci guardano cuori

che ci dolgono,

per avere tutto perso,

la bella illusione della vita.




***




Lascia che il tempo passi,

tienti ferma alla terra;

si placa il cuore, si calma la bufera,

e sul mondo torna la bonaccia.


Quando soffia forte,tienti alle radici

per avere, domani, la fioritura;

non avere paura:

dopo il maltempo volano le rondini.


È paziente ogni pianta

ed aspetta i suoi fiori,

la luce dell'aprile, i profumi,

l'aria che sa di sole e canta.


La primavera ha pianti e dolori,

i rami si lamentano al vento:

ma dopo, lento, ma contento,

ogni ramo nel cielo mette foglie.




***




A Falco


VI



Figlio, ombra di chiglia

non dura un momento,

anche se mille miglia

ha fatto il bastimento.


Gli uomini sono avari,

ogni vento li muove

a nuove cove

sulle rive dei mari.


Traccia sul mondo nessuno lascia,

neanche i cuori sovrani:

i venti vanno lontani,

e tutto al mondo passa.


Tu avevi ventiquattro anni,

il cuore come un giardino,

quel chiaro lume gentile

consola i nostri affanni.

 

Francesco Tomada: altre tre poesie da "Affrontare la gioia da soli"


 


Alla fine



I miei occhi somigliano a quelli di mia madre

nel marrone così anonimo e comune 

lei li avrebbe preferiti chiari

invece le diventarono celesti

solo un attimo prima di morire


so che allora ho pensato alla sua vita

di poche gioie e tanta fatica

al figlio ombroso e scostante che sono stato

e che almeno due dei suoi desideri

si stavano avverando


il secondo era che in quel momento

io fossi lì




***




Lokve



Un'altalena vera deve avere

un'impalcatura di legno artigianale

un'asse e quattro corde

dei chiodi arrugginiti

che venga naturale chiedersi se tiene

un refolo di vento per potersi sbilanciare

e infine un bambino felice


Se non c'è il bambino

può bastare anche un uomo fatto

a patto che ci creda ancora

che a spingersi di gambe

distendere

piegare

distendere

piegare

si può arrivare lì dove si tocca il cielo




***




Preval, gennaio



A saltare sul ghiaccio delle pozzanghere

si ripete un piccolo miracolo

se la crosta si spezza con un suono secco di piastrella

sotto non c'è niente

dov'è andata a finire l'acqua

se invece resiste si resta sospesi

sul vuoto di un cielo consolidato

è un gioco in cui si vince sempre

infatti non ho mai smesso di giocarlo

sono qui storto con un piede sprofondato nel fango

l'altro su un pezzo di lastra intatta e trasparente

non c'è niente di cui devo preoccuparmi

se qualcosa si è rotto

a ripararlo

ci penserà l'inverno

Francesco Tomada: tre poesie da "Affrontare la gioia da soli"

 






IV. 


Ho fatto da padre a mio padre
forse ci siamo invertiti di posto
per capire se almeno così
poteva funzionare

io lo ho tenuto fermo di forza nel letto
quando cercava di alzarsi ma non ci riusciva
lui ha provato a colpirmi
mi sono lasciato insultare e
l'ho pulito quando ormai da pulire
restava soltanto la pelle attaccata alle ossa

E poi un giorno mi ha detto
io per te non avrei mai fatto questo
non so davvero non so
però da qualcuno devo avere Imparato



***



Viene buio presto


Il tavolo con i piatti sporchi della cena
una bottiglia di vino bevuta a metà
e io penso a quando giuravamo
di restare insieme per sempre
                      abbiamo mentito
                      l'eternità non esiste
amare è un verbo che ha senso soltanto al presente
così prima che tu possa sparecchiare
allungo la mia mano per stringere la tua
come i bambini che non vogliono dormire
                       perché hanno paura
                       di non svegliarsi più



***



Nel giorno del quarantanovesimo compleanno



Adesso sono sulla punta della vita
da qui si vede lontanissimo
in ogni direzione

mio nonno che dorme sulla poltrona
con un gatto marrone sulle ginocchia

il pallone calciato verso la porta dell'autorimessa
una volta su trenta si infila nel sette
e io divento Anastasi

i seni piccoli di mia madre sotto la vestaglia
quando si piegava per rifare i letti e poi tu
quando ho visto il tuo corpo per la prima volta
ho pensato che finalmente
il mondo mi aveva perdonato

i figli che i miei figli
adesso dicono di non volere mai
e speriamo che almeno uno sia bambina

io che invecchio peggio di te e allora
per strada dovrai
ricominciare a tenermi per mano
tutto adesso è qui

la cura con cui mio nonno sceglieva le parole
è diventata il mio silenzio
un pallone sgonfio da calciare in giardino
tutto adesso è qui

e come un arto amputato
sento già il calore della mano
che ancora non mi hai dato

Ulisse Morgione: tre poesie da "La cura del liutaio"

 





Questo essere lontano
non appartenere a un luogo
ad una terra, cercare impronte
inesistenti, legami lisi, impermanenti,
questo saettare inutile e furioso
di braci e pentimenti
si placa - non si risolve - nell'oblio doloso.

La cura del liutaio ci vorrebbe
che incolla i pezzi uno ad uno
con i lembi esatti, combacianti
e dopo lucida le scaglie d'ebano
brillanti.



***



Canto dell' assenza
di quel tornare ottuso
a ciò che non è stato, non è durato,
dei giardini infranti
delle sere sulle scale
dell'onda lunga di silenzio e sale
dei campi di ginestre e grano
delle vene d'una mano
andata via senza avvisare.

Canto la distanza
da tutte le cose smesse
nonostante la fatica, la paura che di
notte
può avere gli occhi del coraggio
disperato,
canto la riconoscenza
tarda e muta
per tutto ciò che ho immensamente
amato.



***



È che ci sono anch'io nel serraglio
anche se muto all'apparenza
viaggio, torno, passo al vaglio
- scomposto vento sulla scacchiera-
e rimetto in fila le pedine ogni sera
nella straziante nostalgia
di un tempo che non è stato
se non nella mia desolata
inconsolabile
follia.


Marco Marangoni: tre poesie da "Sentimentalissima luce"

 




Dietro le mie parole

è il silenzio


come la città intorno

e l'oceano buio

in cui navigo;


non c'è fondo mai

nello sguardo

ma è dove

sempre torno, sempre vado




***




Se oggi mi incroci,

è nel taglio che s'apre

o si sfrangia nel buio

che mi indichi delle felci,


ma dove si scoscende, grado a grado,

(tra idillio e tempo)


e finché è l'occasione

e la vita ci destina con un taglio,

col nome




***




Come se il doppio fosse il volto unico

che ci corrisponde,

è a Dedalo che penso a volte

(e al labirinto

che pure disegnò

di corridoi e strade)

mi perdo nei rapporti che non distinguo,

tra l'opera e il creatore

(...)

finché un'ombra non mi supera...

e le domande


come quando credevo di averti

e non ti ho mai avuta di fronte

Italo Testa: tre poesie da "Tutto accade ovunque"




NON POSSO PIÙ TRATTENERE LE COSE FUORI


Sull'impiantito

l'albero mi sovrasta

la parola che dico

ghiaccia dentro la bocca


NON POSSO PIÙ TRATTENERE LE COSE FUORI


La neve s'accumula

e invade le stanze

la pioggia sul letto

precipita fitta




***




Guarda come è fatto un giorno

e un'ora

e ancora un giorno


Guarda come è fatto un minuto

e un istante

e ancora un istante




***




TUTTO ACCADE COMUNQUE


Se allargo le braccia

la stanza s'allarga

dietro le imposte

il prato riluce


TUTTO ACCADE COMUNQUE


Sono seduta

e scivolo sull'erba

sono seduta

e cammino in cerchio



 

Beppe Salvia: tre poesie da "Cuore"

 




Io scrivo di notte, mi suggerisco che scrivere. Io vivo in quei fogli davanti. Mi piacciono bianchi, mi piacciono scritti. Mi piace se canta Lydia Lunch alla radio o Victoria Spivey. Non sono ordinato. Le mie righe lo sono. Distinte le une dall'altre. Perché è peccato sciupare una notte per non dire che il vero. Il mio mestiere l'ho appreso soltanto da me. Io distinguo due cose nel buio. Io penso, e posso, ordinatamente, contraffare tutto che mi circonda. Io ricordo, ed ogni memoria niente m'è possibile mutare. Questo v'insegno: v'è arte e sappiatela usare; è possibile altrimenti sapere di se, a tal modo affranti che il dolore ormai tutto comprendendo, al cuore soltanto affidi la beffa sua più bella e più misera, dimenticare.



***



Prigioniero in una notte deserta,
e altre torri il comune atrio
circondano e corre tra vuote
camere che fuori danno
su campi vuoti assorti
una lunga navata dove
fermano i cantoni cumuli
di neve rischiarata da linee
di luce lunghe fredde, e l'ombra.



***



Elegia

I.

torniamo nella via deserta e bianca
al mondo dove i suoni sono tanto
più nudi che non qui dove la nuda
nostra nuova terra dei boschi tanto

chiara di neve tanto silenziosa
non ci fa beffe non sorride, soli
felici nudi siamo silenziosa
deserta via nei cieli delle stelle,

i cieli dove schermano i rondoni
quei loro battibecchi senza suoni
i baci i belli più di quei bei voli,

ridi nascondi mi nascondi gli occhi
tu fai la luna l'oca bianca ronda
nuova nei cieli nuda silenziosa


Alberto Toni: altre tre poesie da "Non c'è corpo perfetto"

 





Una lontananza, qualcosa insomma che si perda
e poi ritorni agli occhi e al cuore. Guglia, tegola,
all'apice del tornaconto che sappiamo o ignoriamo.

Quello che tengo a volte appare qui sul tavolo
in forma di piega grigia, un filo, una pietra
e un peso che nel pensiero mi sorprende e trema.

Diglielo tu quel giorno del febbraio 1961, gli occhi
a un passo dal cielo e il film in bianco e nero,
l'eclissi che lancia il suo totale sconcerto ai vivi.

Tra luce e buio, che è il nostro mistero infine,
ogni giorno per noi, santo, eterno, essenziale.



***



Ma ciò che più m'insidia e tormenta,
lo vedi, eravamo liberi e felici nei campi
della giovinezza rapita. E scavi tra le zolle
il fortunale che trasporta l'acqua, la pietà
se al mio occhio giunge il tuo ramo ancora fresco.
Tutte le anime del mio giardino e le tue;
tutto un farsi e disfarsi d'azzurro e grigio
e poi ancora d'azzurro; e ancora l'ombra
che seguo, la mia, la tua, andare e tornare,
che già vuol dire la forza e del fatto
che avrò voglia, coraggio e armonia

di perdermi nel tuo cielo puro.



***



Ecco la foglia, il leccio, sempre lo stesso
ora che siamo provati, che guardiamo gli altri
nella città di sera, un po' meno, un po' meno
che apparire, siamo. Stupire, stupirsi: questo
dobbiamo fare nell'occhio nostro attraversato
da dirupi.