Franco Facchini: tre poesie da "La parvenza del vero"




Negli ampi spazi si accede

al maggiormente vuoto.

Lo sguardo è nel solito perpetuo

distacco da sé, è in sé smarrisce

il senso dei confini.


Più si apre il mondo, e più dentro di noi

ci perdiamo. Più lo spazio diventa

grande e incontrollabile, e più sentiamo di essere

costretti, chiusi nei contorni dell'anima

inascoltata delle cose.




***




Guardando in questo modo qua, senza vedere, così

come facciamo quando la luce cade dentro di noi,

nasce un pretestuoso vuoto che instaura un accalcarsi

di momenti e di età e si installa in un punto della strada

indovinato da un odore di pane e dolciumi.

Sembra sia frutto dell'immaginazione, mentre lo sguardo

è solo a metà del sentimento e il sentire è tutto

chiuso nell'oblio. Così, affrettando il passo, andando oltre,

cercando più in profondo, si arriva a un altro punto,

a un'altra strada, si scopre un altro odore e ne vien fuori

una lontananza, un vuoto di visioni, una vertigine,

nel moto del restare di ogni passo e spostamento.




***




La straordinaria immobilità

di quello che ci appare protetto

dalla sua similitudine,

spinge lontano lontano

lungo il pensiero.

Qualcosa di simile a un distacco

dentro il vivere,

tra noi e la nostra presenza.

Noi che siamo costanza di tempo

e asciughiamo concetti in parole,

costringendo la cosa che siamo

a un silenzio, a un evento già stato.

E le piante qui attorno

sono di un grande verde, le foglie

un corpo di luce le attraversa.

E noi pensiamo a come era prima,

alle cose che abbiamo perdute,

girando lo sguardo sugli oggetti

di questa mancanza, sprofondando

nella luce che ce li fa riconoscere.


 

Philippe Jaccottet: tre poesie e mezza da "Il barbagianni, l'ignorante"

 






Agrigento

1 gennaio


Sopra la piazza e i suoi rari bersagli,
cerchiamo il punto da cui si vede il mare,
o si vedrebbe con il tempo chiaro
- Viaggiammo per la dolcezza dell'aria,
per scordare la morte, per il Toson d'oro...
ma non basta: restiamo sulla soglia,
e non servono queste parole affrettate,
né questo stesso oblio, presto scordato...-
Pioviggina. Lo sai, si cambia d'anno,
ma non muta il rimpianto, la condanna:
anche in Sicilia accetteremo sulle mani
le mille spine di pioggia... Fino a domani.



***



I


E ridiscenderò le vie del giorno
con la paura d'essermi lasciato
qualcosa dietro. Mi capirai? Non posso
perdere nulla: non vorrei invecchiare,
ma solo maturare dentro gli anni 

(Dice che questo è un vivere da avaro,
che non crede a un amore che non sperpera...)

Così andrò solo dentro questa bruma,
sempre più avanti lungo il molo stretto
in bilico tra i gabbiani e la schiuma.


II


Pari alla neve che al risveglio è sciolta
potrei dire il mio amore stamattina.
Pure, se scendo al fondo del mio sonno,
ti scopro in me di nuovo, prima lacrima.



***



XIII


Di questa domenica un solo istante ci ha raggiunti,
quando la nostra febbre si è placata, e i venti:
e sotto le luci di strade le cetonie
si accendono, poi si spengono. Luminarie, diresti,
lontane in un parco, forse per la tua festa...
Anch'io avevo creduto in te, anch'io bruciavo
della tua luce, che poi mi ha lasciato. Il loro guscio
scricchiola secco mentre cade nella polvere. Altri salgono,
altri s'infiammano, e io sono rimasto nell'ombra.

Arsenij Tarkovskij: tre poesie da "Stelle tardive"

 







E lo sognavo, e lo sogno,

e lo sognerò ancora, una volta o l'altra,

e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,

e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.


Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo

un'onda dietro l'altra si frange sulla riva,

e sull'onda la stella, e l'uomo, e l'uccello,

e il reale, e i sogni, e la morte: un'onda dietro l'altra.


Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò.

La vita e la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia


solo, come orfano, pongo me stesso,


solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi

di mari e città risplendenti tra il fumo.

E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.




***




Presso il mare d'Azov



Uscii alla stazioncina. La ghisa riposava

tra dense volute di vapore oleoso. Era un re assiro dagli svolazzanti riccioli a grappoli.

La steppa s'aprì, e come nell'antro del vento

vi fu risucchiata la mia anima. Alle spalle

non avevo più capanne d'argilla: le torri lunari all'intorno

fluttuavano consolidandosi fin sull'orlo della terra,

la notte svolgeva da un vano all'altro

la sua tela spessa, ravvolta strettamente.

La mia giovinezza s'allontanó da me, e un sacco

mi curvó le spalle. Sciolsi le corde, e versai

il sale sul pane, e sfamare la steppa, e con la settima parte

di quanto restava saziai il mio corpo paziente.

Dormii, mentre al mio capezzale si raffreddavano

le ceneri dei sovrani e degli schiavi, e ai miei piedi stava

la coppa con le plumbee lacrime d'Azov.

Sognai tutto ciò che mi sarebbe accaduto.

La mattina mi destai, chiamai terra la terra,

e offersi il mio petto ancora debole all'arsura.




***




Come quarant'anni fa



(I)


Come quarant'anni fa,

palpita il cuore al risuonare

dei passi, e la casa con l'abbaino sul giardino,

la candela, lo sguardo miope

che non esige né garanzia

né giuramento. In città rintoccano le campane.

Albeggia. Cade la pioggia, e la scura

inzuppata uva selvatica

si stringe al muro, come uno sradicato,

come quarant'anni fa.

Adam Zagajewski: tre poesie da "Guarire dal silenzio"




La tela




Ero fermo, dritto, e retto, chiuso in un aperto

silenzio, di fronte a un oscuro quadro,

di fronte a una tela pronta a trasformarsi

in un cappotto, in una camicia, in una bandiera,

e invece divenne cosmo.


Continuavo a tacere di fronte all'oscura tela,

colmo d'incanto e di rivolta e pensavo

all'arte del dipingere e all'arte di vivere,

a tanti giorni vuoti e gelidi,


agli attimi d'impotenza,

alla mia fredda immaginazione

che è cuore di una campana

e vive solo nel dondolio,


colpendo ciò che ama

e amando ciò che colpisce,

e pensai che quella tela

avrebbe potuto essere anche un sudario.




***




In riva al mare



Attimi di gioia a sera, in una cittadina

in riva al mare, quando i negozianti

abbassano con uno schianto le saracinesche.

Uno di loro solleva dal marciapiede

un giovane gatto e se lo porta a casa,

come sua proprietà. Il gatto si abbandona

teneramente a questo gesto. Cade una stella.




***




Non si aprirà la terra



Non si aprirà la terra, il fulmine

non brucerà le lettere di fuoco

sul pelo del cielo. Abbiamo meritato

un segno così flagrante, noi che

parliamo a voce troppo alta e non riusciamo

affatto ad ascoltare? Il treno si congeda

quando si solleva il braccio del capostazione,

la cascata non attende il segnale.

Si muoverà una foglia, sfavillerà una goccia d'acqua.

 

Fabrizio Boscaglia: tre poesie da "Il ritorno dell'anima"


 





Tastare luce
con altre mani,
con altri nomi.

Salvare un attimo,
e trarre al cuore
la ricca pesca
dei giorni.



***



Confinamento


L'orologio s'è fermato,
il piano s'è inclinato,
le foglie respirano pesante
sulla strada vuota
del nostro esilio.



***



Fine del Ramadan


Sei ripartito, hai
lasciato questa febbre
d'amore, stranezza d'un
vuoto che
riempiva, perché tu
tessi di luce le notti
e spargi la quiete
sui giorni.



Luis García Montero: tre poesie da "Un inverno mio"

 





Un bar non è la patria, ma il suo nome si scrive
con l'inchiostro delle carte geografiche


Arrivare, aprire la porta, scendere
al tiepido rifugio delle notti di pioggia.

Il mondo è temerario nella sua precarietà,
mantiene le distanze
come i poeti superbi.

Ma vi sono rari momenti di pienezza e abbraccio.

Ricordo certe sere d'autunno
nella mia città di color violetto,
buio e gelsomini,
e il dorso del mare
- di prima mattina -
quando l'azzurro e il sole non sono
dei bagnanti o dell'estate,
ma della perfezione del mondo sicuro
della sua verità.

E ricordo anche l'accogliente
sorriso dei bar,
dopo che le luci delle loro porte
non abbiano ingannato.

I bar come residui nella pioggia,
nel ventre selvaggio del freddo, nella lontananza
o nella fretta di tutto ciò che fugge.

Mi hanno dato un posto
con le sedie vuote,
i vuoti sul banco
e le bottiglie ferme come vecchi soldati
di un esercito amico.

L'uomo solitario dell'angolo,
la coppietta che si bacia,
la straniera dagli occhi familiari,
il vecchio che non vuole invecchiare
con le sue camicie dai forti colori,
lo stanco musicista che ripete
le canzoni di un tempo che fu nostro,
i personaggi strani e le loro pene,
le risa e le loro labbra,
hanno bevuto con me,
mi hanno fatto comprendere
il fiore violetto che serbano le città
e la verità di un mondo
a volte azzurro
col sole sulla porta della notte.

Il nome dei bar
di scrive con l'inchiostro delle carte geografiche.




***




L'avvenire è un contratto con il passato


Non ho nulla da scrivere.
Il giorno è più umile di una pagina bianca.
Ma la luna d'inverno
entra dal balcone e va sui libri
che sono nella mia casa di Granada.
La luce dell'inverno arriva
per lasciarmi tranquillo,
e mi raccoglie
come un giorno di sole nel ricordo.
Finisce l'anno 2009
in questa bella solitudine,
in questo lento passare delle macchine,
in questi vecchi libri,
tante volte letti da tanto tempo,
in una stanza che non lavora
e perde molte ore
perché io comprenda
l'ultima verità di questa poltrona
e le dica il motivo
quando per mano mi accompagna
fino al posto dove ho imparato a sentire
come la nube infranta sul muro.
Ripeto che è stato oggi,
in questa casa di Granada,
con quanto è rimasto sul posto,
la lettera col francobollo sul tavolo,
il lettore sul suo cammino,
la luce sul margine dei libri,
e le fotografie nel loro tempo.
Poiché un tale inganno
non ha peso ed è un'opportunità,
poiché dobbiamo sempre venire a patti con il passato,
poiché la neve è una mia alleata
e si confonde con il sole,
cade cancella le impronte troppo chiare,
come un'amica della resistenza.



***



In qualsiasi inverno c'è un calore fatto a nostra misura


Non nevica più. La notte
riposa sul biancore di lenzuoli
a forma di città.
Dietro la finestra non sono solo.
Ci sono tetti, angoli luminosi,
passanti che attraversano
frettolosi e molte borse con regali
in cerca di una cena familiare.

Alla luce notturna
splende la neve. Splende
lo schermo del cellulare. Felice anno,
e che i tuoi sogni si realizzino,
giustizia nel mondo,
la direzione della Banca saluta i suoi clienti...
Splendono i messaggi che viaggiano
con i loro brevi desideri
in questa religione della distanza.

Che la crisi finisca,
repubblica, salute e l'amore dei tuoi,
domani sarà quel che Dio vuole,
quest'anno è nostro ed è bello,
osare nascere con ciò che sta accadendo,
oggi mi ricordo di te.

Splende la vita, splendono gli anni,
le storie, fogli al vento,
alberi divelti che passano
nel vento che passa,
come passano le foglie e la neve.

Un naufrago perduto in un'isola
cerca di mandare messaggi con il fumo
di un fuoco, o getta
la bottiglia in mare.
in mezzo al nulla,
quando le onde arrivano come i numeri
in una spiaggia elettronica,
anch'io mi avvicino al mare e invio messaggi.

La barba lunga
e la camicia strappata,
scalzo sulla sabbia di un'isola,
schiavo della mia caccia, della mia pesca è la mia rete,
nulla dico agli altri,
solo che sono qui,
ancora naufrago in un posto del mondo,
che segno i giorni
sul tronco di un albero
perché non mi dimentichino,
giorni divelti che passano con il vento,
con il vento che insiste e che mormora
dovresti parlare,
dovresti parlare
poiché in ogni inverno
vi è un ragionevole caldo
fatto a nostra misura.


Adam Zagajewski: tre poesie da "Prova a cantare il mondo storpiato"




Elegia mai scritta per gli ebrei di Cracovia



Ma la più triste è la via Józef, sottile come la luna nuova,

senza un solo albero, e tuttavia non priva di una sua bellezza,

bellezza oscura della provincia, degli addii, di un funerale muto;

qui la sera si raccolgono ombre da tutti i quartieri,

anche quelle portate in treno dalle località limitrofe.

Giuseppe era prediletto da Dio, ma la sua via non conobbe mai fortuna,

nessun faraone la lodò, i suoi sogni erano malinconici, le estati magre.

Nella chiesa del Corpus Domini accendo un cero per i miei morti,

che abitano lontano da qui - non so nemmeno io dove

- essendo che quella fiammella rossa riscalda pure loro,

e i senzatetto intorno al fuoco, quando cade la prima neve.

Vago per i sentieri di Kazimierz e penso a chi non c'è.

So che i loro occhi sono come acqua, e non posso

vederli - nei loro, assenti, posso soltanto affogare.

Di sera sento dei passi - ma non vedo nessuno.

Interminabili, anche se non c'è nessuno, passi di donna

in scarpe ferrate, e poi l'incedere quasi tenero del boia.

Che cos'è? È la nostra memoria nera, sospesa sulla città,

quasi una cometa che si allontana piano dalla stratosfera.




***




Smarriti



Smarriti, smarriti in corridoi grigi.

Di notte le lampadine sibilano come sirene di naufragi.

Leggiamo libri dimenticati dai loro stessi autori.

La verità non esiste, ripetono i saggi.

Serate estive: festival di rondoni,

nei sobborghi esplodono le peonie.

Sembra quasi che le vie si accorcino

per l'afa, per la facilità con cui si vede.

Lentamente si insinua l'autunno.

Talvolta però riemergiamo per un istante

e capita che splenda il sole al tramonto

e spunti una certezza fugace,

quasi una fede.




***



Prova a cantare il mondo storpiato



Prova a cantare il mondo storpiato.

Ricorda di giugno le lunghe giornate

e le fragole, le gocce di vin rosé,

e le ortiche implacabili a coprire

le dimore lasciate dagli esuli.

Devi cantare questo mondo storpiato.

Hai visto navi e yacht eleganti

alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,

ad attendere altri era solo il nulla salmastro.

Hai visto i profughi andare da nessuna parte,

hai sentito cantare di gioia i carnefici.

Dovresti cantare il mondo storpiato.

Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme

e la tenda si mosse nella stanza bianca.

Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.

D'autunno raccoglievi ghiande nel parco

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.

Canta il mondo storpiato

e la penna grigia perduta dal tordo,

e la luce delicata che erra, svanisce

e ritorna.

 

Massimiliano Bardotti: tre poesie da "La terra e la radice"




Talvolta di notte mi svegliavo senza futuro.
Allora mi alzavo, ma non sapevo dove andare.
Era buio ogni cuore e la stanza del cielo coperta di brace.
Avevo allora terrore d'essere nato.
Ma tu mi facesti abitare nel ventre di tutte le cose.
Dove vidi balene ammalarsi d'amore e ringiovanire.
Vidi i tuoi anni bambina diventare di ghiaccio.
Poi invisibili, infranti ed infine composti.
Fosse stato coraggio li avrei abbracciati.
Poi venne il tempo di una semina nuova.
Di nuovo la vita splendeva e il divino era ogni cosa.
Spezzavi un legno e lo trovavi, spostavi la pietra era lì.
Di nulla più si aveva timore, la bestia feroce si fece mansueta.
Di quel tempo ho speranza e memoria.



***



C'è un silenzio che ha tutte le ragioni
E pochi che gli avranno dato ascolto.
Il canto dei pianeti, la lontana risacca.
C'è un sempre che non teme mutamenti.
Qui felicità ha fatto il nido.



***




Alla famiglia umana apparteniamo
Abbiamo milioni di anni.
Ma più di tutto apparteniamo a una radice
Che affonda nella terra dal principio.
E più ancora apparteniamo alla sorgente
Che rese fertile la terra e la radice.
Tutta la creazione risponde alla premura
Di una vasta e antica paternità.
La felicità è un'obbedienza, è appartenenza.


"La bellezza che ci abita": un'esperienza di laboratori di poesia con persone disabili





 









Charles Wright: tre poesie da "Breve storia dell'ombra"

 






Pelli

1.

Qualsiasi solco tu scavi nella terra rossa,
a qualsiasi albero appenda le tue luci,
viene il momento
in cui quel che sei e quel che sarai
fino alla fine, a qualunque
preghiera tu risponda - una vita
in margine, bianco della mela, bianco dell'occhio,
per quanto a lungo tu stenda le mani.
Uno sguardo indietro, uno sguardo indietro. Davanti,
distante,
un grido stride come gesso su una lavagna.
Fra macerie o pietrame, arenaria o flussi di marea,
vai dove il deflusso ti porta,
parola dopo parola, contando
ancora i tuoi denari, indosso abiti transitori.



***



Neve


Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com'è
certo, risorge,
allora risorgeremo, e ci raduneremo
nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio,

Una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo
fra i rami puntuti e Le giunture spezzate dei sempreverdi,
formiche bianche, formiche bianche e le piccole nervature.



***



Riunione


Un giorno s'è già staccato da tutto il resto laggiù.
Alla mia foto nella sua soffice tasca.
Vuole portare il mio respiro nel passato della sua borsa di vento.

Scrivo poesie per liberarmi, far penitenza e sparire
dall'angolo alto a destra delle cose, per rendere grazie.


Silvia Bre: tre poesie da "La fine di quest'arte"

 





Panorama montano, un mare di reale
non si distingue nuvola da neve e gioia
dei loro nomi capitati insieme

ti stacchi, dorsale tutta bianca
dal corpo di una risonanza lieve.



***



La brevità va riguardata
come la cerva vede
una costa innevata di montagna

da questo crinale esercita
alla morte, dall'altro
inosservata, salta.



***



Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l'altra via,
tutta fatale, d'essere.
Questa la geografia.
Si sta così nel mondo
pensosi avventurieri dell'umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire di sé
per vocazione.