Manolis Anaghnostakis: tre poesie da "Poesie"


 




Verrà un giorno


Verrà un giorno in cui non avremo più niente da dire
Staremo seduti di fronte e ci guarderemo negli occhi 
Il mio silenzio dirà: Quanto sei bella, ma non trovo altro modo per dirtelo
Viaggeremo non so dove, così per noi o per dire che anche noi abbiamo viaggiato.

La gente cerca per tutta la vita di trovare almeno l'amore, ma non trova nulla.
Spesso penso che la nostra vita è talmente breve che non varrebbe neppure la pena di cominciarla
Da Atene me ne andrò a Montevideo forse e a Shanghai; è qualcosa anche questo; non puoi negarlo.

Abbiamo fumato - ricorda - infinite sigarette discutendo una sera
- Non rammento di che cosa - ed è un peccato perché è stato tanto ma tanto interessante.

Potessi pure un giorno io fuggire lontano da te, ma anche lì verrai e mi cercherai
Nessuno mai, Dio mio, può fuggire da solo.
(...)


***

13.12.43


Ricordi che ti dicevo: quando fischiano le navi non startene nel porto.
Ma il giorno che fuggiva era nostro e non avremmo mai voluto lasciarlo
Un fazzoletto amaro stava per salutare l'uggioso ritorno
Pioveva davvero molto e le strade erano deserte
Con un tenue, indefinito sapore autunnale
Finestre chiuse e la gente così dimenticata
- Perché tutti ci hanno lasciato? Perché tutti ci hanno lasciato? E stringevo le tue mani
- non aveva niente di strano Il mio grido.

... Un giorno ce ne andremo in silenzio e vagheremo
Per le città tumultuose i mari deserti
Con un desiderio acceso sulle labbra
È l'amore che abbiamo cercato e che ci hanno negato
Tu dimenticavi le nostre lacrime, la nostra gioia, i nostri ricordi
Salutando le bianche vele al vento.
Forse non ci resta nient'altro che questo da ricordare.

Nella mia anima sussulta l'angoscioso Perché,
Assorbo il vento della solitudine e dell'abbandono
Batto le mura della mia umida prigione e non attendo risposta
Nessuno mai toccherà la misura della mia tenerezza e della mia tristezza.
(...)


***


Una data, anni fa


Siamo vissuti sempre su spiagge umide introvabili
In silenziosi caffè con sedie decrepite
I crepuscoli vanno e vengono e il mare è infinito
Con le grigie navi che partono e si perdono nel buio.
È bello e triste ricordare tante sere
Strette a fumi invalicabili e a due occhi nerissimi.
A una mano che si allontanava e salutava dal porto ("Porto Said - Alessandria" 20 luglio)
Abbiamo vissuto quelle estati monotone e tristi
Rinchiusi dietro le inferriate del mare
Contando una a una le onde e le stelle
Dediti alla nostra amara attesa.
Sterili ricordi.
A che pensano tutte queste navi nella notte
Che danzano strette da tanti anni e non sono invecchiate
Avviluppate nelle tempeste di innumerevoli viaggi
Che cosa ricordano gli accesi tramonti dei tropici
Le luci che si piegano e sprofondano nell'acqua
I ragazzi che non dormono e piangono ogni sera
("Porto Said - Alessandria" 20 luglio)
I suoi occhi erano tristi come i pomeriggi d'estate
Serrati profondamente nei misteri del mare
E una mano morbida e delicata come la tenerezza
Una mano morbida ti può attirare cantando
Negli abissi del mare nelle lontane città.

Siamo vissuti sempre su spiagge umide e introvabili
Con la memoria ferita da occhi e viaggi
Legata una nave che non farà ritorno
In mezzo a fumi invalicabili a canzoni roche
("Porto Said - Alessandria" 20 luglio).

Paolo Parrini: tre poesie da "Prima della voce"



Affacciarsi sui fiori tra le pietre

e prima di cadere, respirare.

L’alba sorprende la ferita.

È un giorno senza memoria

né case palazzi o grondaie

né rimbalzi. Novembre

è una promessa di neve.



***



Farsi raggio o crepa,

sottile, annidarsi nei concavi

spazi, addormentare la memoria.

Quello che non abbiamo

sono i suoni iniziali dei nomi

che un tempo ebbero un volto.

                                    Sia benedetto

questo spazio fatto altrove.



***



Questo corpo si depone

foglia in attesa

tappeto e rovo

perché dentro tutto il chiaro

esplode sempre una nube scura.

I covoni allineati descrivono

geometriche visioni.

Ma non è ancora tempo del raccolto.

 

Gëzim Hajdari: tre poesie da "Poesie scelte"

 





Non piangere, è il pettirosso che corre
sul ghiaccio del ruscello.

Presto fiorirà il mandorlo
e gli uccelli lirici ci canteranno
nelle vene.

Non piangere,
ho percorso la tua ferita
per raggiungerti.


***


Forse resterò io
(ombra di cane o erbamara),
tirando sassi contro il vento
nelle notti straniere.

assediato dall'edera invadente
e dai brividi umidi
della stanza sgombra,

Immobile
come il nero delle montagne
frustato dalla pioggia.

Anche il mio corpo resterà solo
con il tuo nome di carne
e di buio,
nelle mani fredde,
e con parole assurde sulle labbra.


***


Ovunque io vada in Occidente
porterò con me il mio volto scavato.

Nei miei occhi tristi,
(come in una prigione),
la mia Albania, voci perdute
e tu che ti bagni sotto altre piogge.

Forse in una giornata di pioggia
morirò anch'io,
per strada,

ucciso dai miei sassi
lanciati contro il vento.

Yari Bernasconi: tre poesie da "La casa vuota"



Tallinn


Sei sempre tu: la giacca e il gatto
sulla maglietta. Gli occhi determinati.
Ma l'aeroporto è nuovo e quando dici
<<dieci anni fa>> qualcosa si smarrisce:
una piccola ruota dell'ingranaggio,
fra le vetrate; la vivida certezza
nell'ignoto; quel nulla tanto atteso
e poi riempito e affrontato con foga.
Anche noi siamo sempre noi. Soltanto
più numerosi. Come te, quando diciamo
<<dieci anni fa>>, sentiamo forte e pesante
lo strascico del tempo speso,
che sembra perso.


***


Dejevo


Dove sono le case diroccate, sfondate,
il villaggio in rovina? Quelle macerie
inghiottite dal verde? Non le abbiamo sognante,
ci dicono più tardi, ma tutto è stato demolito
dalle autorità. I garage scavati nella terra
sono adesso teatro di bivacchi e bevute.
Le vecchie strade una pista per quad o motoslitte.
Mentre fotografiamo due mattoni dimenticati
fra gli abeti, tu aspetti e raccogli gallinacci,
poi bacche ed erbe per le tue tisane.


***


Attraverso la striscia d'acqua dolce
tra Caslano e Lavena, dove i pesci
sembrano rallentare, un ragazzo raggiunge
l'altra riva e sorride. Ma se ritorni
domani o dopo, quando il velo di pioggia

nasconde il cielo, vedi gli alberghi cupi e inabitati

e le case svuotate, mentre su è solo roccia,
strapiombo. Senti l'ansia dell'inizio, e più forte
la paura di un'altra fine.

Luigi Paraboschi: tre poesie da "Due parentesi e un punto di domanda"

 





La vita se ne va


La vita se ne ne va e passa oltre
questa luce che divora il giorno
dietro le tende di vuote stanze dove
s’è spento il desiderio nell’abitudine
che gli alberi travalica;
mi piacerebbe riposare nel colore
di questa tardiva primavera
che s’ assopisce nell’ombra dei giardini
dentro il bisbigliare delle ragazze
e sui loro tatuaggi incandescenti.

Ho dentro il vuoto e sono
senza più tutori e volontà,
voglio così assopire l’ansia
e rallentare i battiti
sotto il verde blu pacato
di questo slargo tra le case
fermarmi qui ad ascoltare
il silenzio di questa vita
tra due parentesi quadre
ed un punto di domanda.


***


Confine danese


Il freddo nelle giunture gela i passi
di un cammino che non è più strada,
lo stesso esodo di quando fummo
chiusi dentro i vagoni
e anche qui come allora chiedono
il dazio al confine di passaggio.
Teniamo chiuso il cuore ad ogni sguardo
muti baciamo la mano di chi la porge,
sordi al richiamo della commozione;
andiamo, come settant'anni prima,
con gli stracci di casa raggomitolati
attorno ad una sorte non voluta
che ci troviamo ancora addosso.


***


Metterò cartoni alle finestre

Il tempo e l’uso hanno devastato i vetri
e le finestre, il temporale della sera accumula
la grandine negli angoli più oscuri.
Per riscaldarmi brucio con parsimonia
tralci e racimoli celati
dietro le foglie rosse nel novembre,
raccolti lungo filari saccheggiati,
e rubo un guizzo dai sorrisi per le strade.
Forse ancora tenderò la mano
tra illusioni e speranze di libertà, poi
per riparami dal freddo della stagione
metterò cartoni al posto degli infissi
e cercherò la verità anche con poca luce.

Loretto Rafanelli: tre poesie da "A ogni stazione del viaggio"

 





Vita che giungi nel segreto dell'attimo,
che ordini le trame e i vasti lungomari,
che porti gli estremi sipari,
che attraversi i secondi nella fissità
del nominare, qui nello spazio di una stagione
che va dal senso del precipitare
al sorriso lieve come il gioco
di un bimbo, osserva le coordinate
del nostro viaggio, conta le pause delle notti,
guarda l'eccedenza e i grani
del raccolto, quell'atto dell'incontrare
o l'estrema solitaria
oscurità.


***


Non sappiamo se la foce o la fonte
sono occhi sospesi sul gorgo della frontiera
o frangenti minimi di vita, se le persone
si incrociano nelle piane lontane o si perdono
nella riva fredda di ogni giornata,
vediamo solo che l'itinerario
tra terra e terra è fissità sospesa,
o è il giro perpetuo della sezione del dubbio,
e si vede il punto più estremo del mondo,
e il punto dell'argine, e il respiro dei giorni,
e l'andare continua dei volti,
e l'amara assenza del ritornare,
e l'incontro con la sfinita visione del mare,
nel magma delle radici, nelle tante
patrie, nella mia patria.


***


Sul greto del paese, calato ora
in una larga assenza, ci sono
i giochi e le voci nella curva
breve, quando portavo pietre
che cumulavo nell'argine
del Reno per formare
una patria. E ritornano le grida
dei ragazzi del pallone e il fiato
fresco e giovane raggrumato nella valle
biancastra. Non posso ripercorrere
tutto il tempo del paese colmo di respiri,
ma solo tracciare la linea di una distanza,
e ora vorrei il il senso intatto della retta
dei sorrisi e tenere fissa la rivelazione
e l'alba di ogni fronda e il tramonto
che congiunge i passi di questo giorno.
E quando le persone che solcavano
la piazza scompaiono, mi accorgo
che il sole è divenuto una goccia
secca, arrugginita, come fosse
un ticchettio sconosciuto.

Rosaria Ragni Licinio: tre poesie da "Interno rosso Marte"

 





Sotto la luce della lampada
che non riposa
ho rivisto il tuo volto di carta
stropicciato

dall’inganno di averti ancora
nelle tasche dei pantaloni
o nel portafogli.

Icona dell’assenza
che tutto tace
e tutto lascia correre.


***


Benedici Dio ogni notte
senza una tregua tra la voce
e il respiro – neppure il vento lo ferma –.

Mi fa male questo trambusto:
schiaffi sulle orecchie e baci in volto,
la fiducia in un solo discorso.

Osserva la donna muta – mi costa
troppo la parola – trasfigura l’amore, cambia
il gesto e ritorna. Mistica dell’oggetto

devo mettere ordine: disfare
i capelli e lavare le mani
e poi chiudere gli occhi.


***


Portarsi dentro il cielo
contratto uno sguardo,

– respirare ansia verde –
pulviscolo di pini frantumati

e sentire tutt’intorno
il lascito animale.

Interferenze, muscoli tesi,
un fendente taglia l’aria

e mi apre il cuore in due.
Non ho paura di morire.

Giuseppe Conte: tre poesie da "Non finirò di scrivere sul mare"

 





(...)
Da ragazzo volevo imparare a camminare
su di te, leggero come un ramo,
rispondendo a non so quale richiamo
di profezia, di eresia.
Lo voglio ancora, ne voglio ancora,
di mare, di poesia.
Per tutte le infelicità, le umiliazioni
per tutto quello che di male
mi fa la terraferma, tu sei medicina,
mare, spettacolo che appare
sempre crudo e dolcissimo ai miei occhi
come questo della tortora maschio
che sulla riva con assurdi tocchi
d'ala, planate, rincorsi, svoli
insegue senza mai riuscire a prenderla
la tortora femmina.
Un coito impossibile, come il tuo
con la terra, come il mio con la vita.
Eppure sono qui, non è finita
ancora. E scriverò di te,
sempre di te, delle tue amare
verità di sale
della gioia che dai alle vele,
di te che sei ciurma e solitudine
di te che sei infinito e finitudine
padre o madre o fratello primogenito
spalancato come un abisso,
segreto come una conchiglia
sempre al di là di quello che possiamo conoscere
- e se ti contraddici è perché sei libero
- e per i liberi -, non finirò di scrivere
su di te mare, il sempre mare,
non finirò di cantare
di te.


***


(...)
Chi ama il fiume, ha certezze.
Sa dov'è la foce, dov'è la sorgente.
Sa le sponde tra muraglioni o canneti
e lo scorrere lungo i greti
dell'acqua dolce che disseta.
Sa il percorso dei salmoni-anime
a ritroso verso le altezze.
Ma chi ama te, mare, non ha niente
soltanto movimento e orizzonte
non ha più punti di riferimento
soltanto costellazioni e infinito
e vortici di schiume e di salino.
Non sa più cosa è lontano e cosa è vicino
visto da questo confine che è la riva
non sa più cosa parte e cosa arriva
chi è l'altro, e chi è se stesso.
Sono qui che scrivo, e scrivere di te adesso
mi sembra ancora perdizione e salvezza.
Come te, mare. Dammi la tua mano.
Come te, che sei uragano
e carezza.


***


QUANDO NUOTAVI DA
UN MOLO ALL'ALTRO MOLO


U l'è ma' vive, u l'è ma' esse nasciüi,
lo dici spesso, mamma, io ti ho sentita
tu pensi che la vita ti abbia tradita
e sembra a volte che tutto per te
sia rimpianto, malcontento, dolore,
male senza riscatto, terra senza un fiore.
Ma dimmi, che cosa volevi davvero
da noi suoi figli, da tuo marito?
Ho fatto ingrandire e ti ho regalato
la foto di lui in divisa, giovane ufficiale
con l'immancabile sigaretta in mano
e quel raro sorriso altero, lontano
e di te che ridi come una bambina
ridi abbandonandoti, come di fronte
au ma'
quando nuota vi da un molo all'altro molo
del porto, ti ricordi? alla Marina.
Ricordati di quello, di quella gioia
e non dire più, ti prego,
"vostro padre non mi ha reso felice
e voi non siete come io vorrei"
è per lui e per te che siamo qui,
ci vedi, mio fratello e io, uniti,
in questa casa dove ritorniamo
da te come per il richiamo
di un'alta marea infinita
a dire grazie, ma', grazie vita.

Luca Bresciani: tre poesie da "Linea di galleggiamento"

 





Sollevare le tapparelle
cercando una notizia per risorgere
oltre quel vetro così sottile
che diventa una nuova cute.

Indosso la memoria della pioggia
nella prima volta con la terra:
la paura nella forma pregiata
di non sapere come si ama.


***


L'universo non ha cornice
e io torno ad avere un padre:
pianeta simile alla Terra
con oceani sotto le ciglia.

La sua massa resta enorme
ed è cattura dietro le spalle
e come la città sulla calamita
io sono l'eco di una fuga.


***


Il buio e le sue lontananze
nella frattura delle precedenze
e quella curva senza memoria
invertendo il senso della vita.

Ma le palpebre all'interno
hanno inciso un indirizzo
e nel sonno ogni persona
riporta un disperso a casa.

Mara Venuto: tre poesie da "La lingua della città"

 





Sono nata e non ricordo,
il sangue le voci, non c'erano animali
o fuochi nella terra delle regioni,
solo una bocca incapace di amore.

A settembre la città odorava di polvere e acqua,
la strada era un nido di passi
gazzelle e grembiuli neri
a coprire la bellezza dallo sporco.


***


Sui ponti l'inizio ricorda la fine,
il verso comincia dove giunge,
nel mezzo la luce cade e
si rintana nel grembo della madre.
Non ha cresciuto figli,
li ha lasciati al buio della strada
alle fiamme del camino, il più feroce dei focolari.
Quegli orfani amano come Dio,
non ricordano, hanno pietà,
scrivono sulla polvere la lingua della città.


***


La schiena è una muraglia
dove tutto è invisibile agli occhi,
alle mani che vogliono e non possono
toccare un osso nascosto
una cima in mezzo al naufragio.

Amare l'estinguibile speranza
di saziare risposte, farle di qualche senso come dita,
svegliare chi dorme e non parlare.