Eleonora Rimolo: tre poesie da "Prossimo e remoto"




Conto le tue imperfezioni sulla riva

di questo stagno inospitale, chiedo

all'imprecisa retta dell'orizzonte

se sia giusto essere stanchi

di quel che si ha o si ama,

se è meglio tenere la tristezza per sé

perché nessuno ha mosso

le acque, nessuno è più riemerso

dal fondale petroso dove non arriva

luce e non c'è vegetazione ma solo

la palude ferma, severa cavità

di un terreno franato

scomparso come noi siamo.



***



Qui tra le geometrie abbandonate dei palazzi

abita da giorni un battito che corre veloce

oltre gli archi, gioca a nascondino con gli angoli

e si propaga, cerchio perfetto, senza modificare

lo spazio: è ancora questa voce afona che dice

amanhā, amanhā, non c'è più fretta, respirano

larghe le mura ci invitano alla vita, all'aprire solo

un'ultima volta le valigie, a posarsi con la guancia

sul freddo cemento grosso che non traspira,

ad accendere fuoco e vino sopra le fronti di resina,

ad amarti il tempo di dimenticare questa nostalgia,

a gridare oltre le cime dei tetti famiglia, legno, sonno.



***



Per due giorni il vento ha cercato l'entrata

delle nostre tane, senza fermarsi, notte

e giorno un unico grido tra le ante, la stessa

elemosina pretesa con una lingua sconosciuta

che non conosce traduzione ma solo spavento:

è straniero il tuo silenzio dopo lo schianto

del vaso sopra il davanzale, è una cosa

che si crepa dentro le spire del grecale,

come le gambe gracili si frantumano

dentro gli spilli dei dissuasori e poi servono

anni di orrore di ricostruzione, carezze

e riposo per assorbire il trauma, per attrarlo

dentro un'altra faccia con altri occhi,

che non sono più i tuoi.
 



Francesco Scarabicchi: tre poesie da "Con ogni mio saper e diligentia"

 





Vi guardo dal ciglio della storia, dal limite concesso all'invecchiare,
dal mio silenzio che non ho salvato
per un'offerta al dio che mi trascura
in questa casa dove il vento volta.



***


Epilogo

Un'altra luce torna, un'altra va,
cielo di chiusa tenebra d'azzurro,
muschio di pietra e sogno,
cani lontani salgono quel monte,
umido della pioggia che c'è stata,
stazione del mio essere, svanire



***


Attesa


Nel nome il luogo dove fermerò
la perenne inquietudine in cui vivo,
il disagio, la febbre che m'assale
quando, ogni volta, anonimo e straniero,
sento compiuto un altro mio soggiorno.

Emiliano Cribari: tre poesie da "La vita minima"

 






me lo dicono il gambo di una rosa,
un filo d'erba nell'asfalto
che anche questa vita
fatta di poco 
è solo l'illusione
di una vita minima


***


è novembre
a Castagno D'Andrea piove da un mese
la mattina la nebbia nasconde il paese
le case sono fievoli luci di cucina:
i lampadari una definizione
della parola poesia
dietro i vetri fornelli e televisioni
odore di legna,
tepore di montagna
in attesa del pranzo,
gli anziani s'avvicinano alle finestre
e scrutano in alto, in basso
scuotono il capo
non che debbano uscire
è una tristezza così, tanto per fare


***


bisogna sperare che piova
che la luce impallidisca
sopra le foglie secche
i tronchi sfatti
i funerali fatti in silenzio
alle ghiande
sputate dai cerri
bisogna sperare che il fosso
a valle gonfi 
si dibatta
celebri rabbioso
il suo canto
e che i sentieri
siano ancora tutti d'acqua
e di terra
bisogna sperare che il peso
dei pensieri
faccia condensa e s'involi
tra la nebbia alta,
già sparsa
bisogna sperare di sparire
come vischio amoroso
nel silenzio dell'Oia

Crocevia dei cammini in radio (estratto)


 

Alcune poesie da "Crocevia dei cammini", lette a Radio Prima Rete, all'interno del programma "La poesia non fa rumore", condotto da Laura Corraducci.

Pietro Russo: tre poesie da "A questa vertigine"



Per nome



Mettiamoci d'accordo su questo almeno

non è uguale a se stesso il tempo

c'è tempo e tempo e per ognuno

un nome diverso, anche quello

dove non stiamo insieme si deve battezzare

assieme al tempo mai avuto, che fa male

come quello che non avremo.



***



A passo strabico



Camminavamo con lo strabismo

nel passaggio ("si abita il luogo che si lascia",

solo quello pienamente). Solo che poi

per quali sedimenti la storia

si calcificava nei particolari di un profilo

egizio, la frangia scombinata dal vento

che matura, alla lunga, la distanza.

Non è più il gesto che si accorda alla gamba.

Per uscirne indenni, sarebbe bastato

il respiro trattenuto

come segnale di fumo lasciato al caso:

senza pensarci quindi spiccare il salto...



***



Come avere un cuore in prestito le mani.

Le equazioni del desiderio in scadenza

nei libri, i falsi indizi di marzo. Il trucco

registrare fatti da una storia che non ti appartiene.

Uscire dalle narici, rendere indietro

il soffio non richiesto. Faccio il giro di me stesso.

Mi vedo per una volta intero.
 

Silvia Rosa: tre poesie da "Tutta la terra che ci resta"



Persino i leoni, qui, hanno denti umani

e sfoggiano criniere di galena, intagliate

con scrupolo. I loro occhi sono tracce

cuneiformi di palinsesti e programmi

seriali, costellati di insuccessi e di bachi.

Le loro fauci grondano scansioni criptate

intanto che le periferiche dei nostri volti sono

allineate per dimensioni di globuli bianchi 

e anticorpi. Sembra che attendano di sfigurarsi

in apparizioni, sostituirsi ai neuroni,

alle braccia, alle mani, convogliare

le nostre visioni in dispositivi di protezione,

integrarsi nelle rientranze molli dei nostri corpi,

superare ogni scissione con cognizione di causa,

liberarci dall'agonia della crepa, della frattura

dei bordi, dai limiti della memoria




***




È quel gesto che resta sospeso a metà,

la dirittura d'arrivo di un progetto

per un niente mancata, il filo di capelli

appeso come un sonaglio reattivo

al primo dente del pettine,

la velatura di madreperla che omette

le evidenze familiari del corpo, precisamente

è questa la dolenza che lasciano in sorte

quelli che se ne vanno, di spalle:

si avventurano dentro un budello argenteo

di zinco e fosfeni fino a un risucchio lattiginoso

di luce, non sentono i nostri richiami

a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie

di vetroresina da cui li osserviamo

perdere consistenza, diventare ricordi.


Dove ritrovare le loro orme di odori,

le ragioni della distanza, i loro commiati?




***




La progressione del grigio è compiuta

- guarda - il nervo ottico è un ingranaggio

larvale, frastagliato e composito: ora possiamo

osservare in uno schermo HD il simulacro

delle nostre esistenze, scrollarci di dosso

lo strappo della nascita, in modalità multifocale

scrutare attentamente lo spettro luminoso

delle nostre cellule e scremarle

affinché la lattescenza in nuce prenda congedo: 

nella qualità del nero stiamo acquattati

a fissare su lamine le distorsioni impresse

al movimento ondulatorio, siamo

in contemplazione di noi, dei nostri

riflessi che rimbombano. Un giorno

non ci ricorderemo più il senso

dell'orizzonte, il morso del cielo

e la sua traccia turchina sulla retina.
 

Luca Ariano: tre poesie da "La memoria dei senza nome"



Cosa fai a Milano?

Tu che sei fuggito...

Quante Terese e Bell'Iridi smarrite? Oggi non ci pensi accanto a Rosa

su quei Navigli... sulla Darsena ripulita.

Giochi a fare la guida:

<< Qui lavavano i panni... qui pregava la Merini... >>

I versi di Vittorio sereni?

Senti il suo capo sulla spalla,

il cappotto blu Klein, l

quel viso ancora vede prati dalla finestra,

quasi sperso tra cubi di cemento, guglie e marmi.

Ti senti come nel dopoguerra,

prima di ricostruzioni sussurrandole:

<< Avrei dovuto... sì mah... >>

Ti ricordi di Primo che quasi si gettava

dal Ponte della Ghisolfa.

Non ascolterai l'Enrico e mentre cade

un crepuscolo lombardo

- scherzando su un vecchio poeta -

abbraccerai Rosa tra le ombre delle case.




***




Sarà stato l'anno degli Europei,

quelli dell'ottantaquattro...

Le Roy, la Thatcher, Reagan,

Ritorno al futuro guardato

sgranando gli occhi.

Da mesi aspettavate il mare: Lignano... i braccioli... colori

diversi dai campi nebbiosi

e Giggino canticchiando:

<< Portami a ballare oppure altrove,

ma portami via da qui... >>

Chissà se si immaginava così oggi?

Ora tutta fuliggine

immaginata dietro i vetri

di un locale finto anni Cinquanta:

<< Sunday, Monday, Happy Days.>>

Pattinano giovani polpacci in quel tempo

mai stato tuo: chi porteresti lì?

Elemosini un lavorà ma fuori la fila

e domani una grandinata nasconderà tutto...

diranno un'altra estate anomala,

un bacio mai arrivato.




***




Non credere amore che non senta

il tuo dolore mentre ti fiacca la carne,

quando pensi ai ricordi del passato,

alla paura di dire: << Felice. >>

Ho visto le tue lacrime scorrere sulle

gote, le ho baciate per asciugare

le ferite della tua anima, i crampi

nello stomaco, il timore del futuro.

Non credere che non scorrano lacrime

sulla mia pelle quando penso ai tuoi

occhi non più di bambina:

lo sguardo che ha perso il sorriso

al primo sole fuori dalla finestra.

La mia mano sarà sempre lì a scaldare

le tue dita, stringere i polsi tremanti

quando sentirai scendere la sera

e penserai che domani la brina

possa svolgere tutto.





Non credere amore che non senta

il tuo dolore mentre ti fiacca la carne,

quando pensi ai ricordi del passato,

alla paura di dire: << Felice. >>

Ho visto le tue lacrime scorrere sulle

gote, le ho baciate per asciugare

le ferite della tua anima, i crampi

nello stomaco, il timore del futuro.

Non credere che non scorrano lacrime

sulla mia pelle quando penso ai tuoi

occhi non più di bambina:

lo sguardo che ha perso il sorriso

al primo sole fuori dalla finestra.

La mia mano sarà sempre lì a scaldare

le tue dita, stringere i polsi tremanti

quando sentirai scendere la sera

e penserai che domani la brina

possa avvolgere tutto.


 

Julia Hartwig: tre poesie da "Sotto quest'isola"




Sotto quest'isola


Sotto quest'isola c'è un'altra isola, forse più bella ancora.

Le si avvicina a nuoto una nuotatrice sorridente che in rapidissimo arco congiunge roccia aria e acqua.

Vorrei vederti da tutte le parti, mostro, frammento, burrasca, splendida follia di una mente chiara.



***



Ritorno alla casa dell'infanzia


In mezzo all'oscuro silenzio dei pini - Il grido di betulle Giovanni mette che si chiamano a vicenda.

Tutto è com'era. Niente è com'era.

Parlami, Dio dei bambini. Parlami, paura innocente.

Non capire nulla. Sempre diverso, dal primo grido all'ultimo sospiro.

Eppure anche quella era vita. E i momenti felici mi vengono incontro dal passato come fanciulle con i lumi a olio.



***



Risveglio alla luce della grazia


Mia madre è in piedi accanto al letto.

Alzati, dormendo ti sei persa milleduecento mattine assolate e una quantità infinita di mattine nebbiose. Ti stanno aspettando.

Ma non c'è nessuno. Non c'è più neanche lei. Accendo la radio per sopraffare il ricordo della sua voce.

Sull'erba si vedono tracce di brina notturna.

Durante la notte gli alberi si sono scrollati di dosso le ultime foglie.

Ma come mai c'è in me felicità e dolore nello stesso tempo.

 

Rainer Maria Rilke: tre poesie da "Il libro d'ore"

 





Vivo la mia vita in cerchi che si allargano,
che passano sopra le cose.
L'ultimo, forse, non potrò portarlo a compimento,
ma voglio protendermi, tentare.

Giro attorno a Dio, alla torre antica dell'inizio,
le giro attorno da migliaia d'anni:
e ancora non so: sono un falco, o una tempesta,
o un canto, forse - e grande.



***



Per questo, perché Uno un tempo t'ha voluta,
io so che anche noi possiamo qui volerti.
Anche se d'alcuna profondità non ci curassimo,
se nasconde oro una montagna
ma nessuno vuole andarne alla ricerca,
il fiume un giorno lo trarrà alla luce - lui che cerca tra il silenzio delle pietre,
colme.

Anche se noi non lo volessimo:
Dio tende al compimento.



***



Mia vita non è questo ripido momento
nel quale tu mi vedi tanto urgentemente andare.
Sono un albero di fronte allo spazio che per me si stende,

una soltanto delle mie molte bocche,
e proprio quella che per prima si dischiude.

Sono l'istante silenzioso tra due suoni
che a fatica ora s'accordano l'un l'altro:
il suono morte infatti vuole prevalere -

Ma nell'oscuro intervallo si conciliano,
entrambi con un fremito.

E rimane bello il canto.

Karin Boye: tre poesie da "Poesie"


Alla bellezza



Quando i nostri dei cadono

e stiamo soli tra i frantumi,

senza più appoggio per i piedi

come sfere nello spazio - 

allora ti s'intravede un attimo, alta Bellezza.

Allora, solo allora.

Severa come fuoco tu consoli: "Qualunque cosa cada - io sorgo ancora."

O stai, stai, benedetta,

e salva la mia anima

dalla menzogna di un dolore infinito!





***




Non desiderare niente che altri abbia avuto:

tutto accade una volta sola.

Non desiderare ciò che qualche poeta

ha cantato nel suo canto più bello.


Una notte luminosa di stelle, nella veglia,

il Destino busserà alla tua porta 

e ti cercherà con occhio di strano colore,

di cui nessuno ha mai parlato prima.


È scesa come rugiada dall'aria,

è nata dalle braccia dello spazio,

e nessuno, nessuno ha incontrato il suo sguardo,

e nessuno le ha dato un nome.


A te è venuta dalla terra del Nulla,

per te è stata creata ora,

e nessuno, nessuno nel tempo dei tempi

più di te ha baciato le sue labbra.




**




Sento i tuoi passi nella sala,

sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi

che nessuno nota altrimenti.

Intorno a me soffia un vento di fuoco.

Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,

e l'anima fa male.


Cammini lontano nella sala,

ma l'aria ondeggia dei tuoi passi

e canta come canta il mare.

Ascolto, prigioniera dell'oppressione che consuma.

Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo

batte il mio polso nella fame.


 

La prima poesia dell'anno

 




Dal dolore alla gioia


Il dolore

era piombo e pietra e mi chiudeva in me stessa.

Ogni giorno una nuova cerchia di mura,

un nuovo giro di catene.


Ma la gioia

mi dilata ora dal centro del cuore

fino agli orli vibranti del mio essere - 

leggera come un fiore che apra i suoi petali al mattino...

No, più leggera. Io sono spazio e luce.

Sono il crocevia di liberi venti.


(Margherita Guidacci, "Le poesie", Le Lettere)