Eleonora Rimolo: tre poesie da "Prossimo e remoto"




Conto le tue imperfezioni sulla riva

di questo stagno inospitale, chiedo

all'imprecisa retta dell'orizzonte

se sia giusto essere stanchi

di quel che si ha o si ama,

se è meglio tenere la tristezza per sé

perché nessuno ha mosso

le acque, nessuno è più riemerso

dal fondale petroso dove non arriva

luce e non c'è vegetazione ma solo

la palude ferma, severa cavità

di un terreno franato

scomparso come noi siamo.



***



Qui tra le geometrie abbandonate dei palazzi

abita da giorni un battito che corre veloce

oltre gli archi, gioca a nascondino con gli angoli

e si propaga, cerchio perfetto, senza modificare

lo spazio: è ancora questa voce afona che dice

amanhā, amanhā, non c'è più fretta, respirano

larghe le mura ci invitano alla vita, all'aprire solo

un'ultima volta le valigie, a posarsi con la guancia

sul freddo cemento grosso che non traspira,

ad accendere fuoco e vino sopra le fronti di resina,

ad amarti il tempo di dimenticare questa nostalgia,

a gridare oltre le cime dei tetti famiglia, legno, sonno.



***



Per due giorni il vento ha cercato l'entrata

delle nostre tane, senza fermarsi, notte

e giorno un unico grido tra le ante, la stessa

elemosina pretesa con una lingua sconosciuta

che non conosce traduzione ma solo spavento:

è straniero il tuo silenzio dopo lo schianto

del vaso sopra il davanzale, è una cosa

che si crepa dentro le spire del grecale,

come le gambe gracili si frantumano

dentro gli spilli dei dissuasori e poi servono

anni di orrore di ricostruzione, carezze

e riposo per assorbire il trauma, per attrarlo

dentro un'altra faccia con altri occhi,

che non sono più i tuoi.