Una (breve) intervista su L'Estroverso
Roberto Deidier: tre poesie da "Una stagione continua"
Michele Bordoni: tre poesie da "Gymnopedie"
Sempre bianca rimane questa riva,
immacolata l'acqua, benedetta
l'impossibilità della distanza:
e noi poveri, pochi nell'ascolto
che si nega e dilaga nell'udito.
Si resta ad aspettare la parola.
Imparare lo strascico delle onde,
limitarsi a raccogliere sul lido
gli avanzi di quel mare che straborda.
E al fondo scomparire, ritornare
a casa, le mani ancora insabbiate.
Ma forse questo chiediamo sull'orlo
alla spuma, di trovarla in un difetto
di pronuncia, sepolta troppo dentro
la quotidianità. Di parlare
quasi a doverla masticare a vita,
dimenticando di doverla dire.
***
(a mio padre)
Seguivo sulla sabbia le tue impronte
rimaste a raccontare il tuo passaggio;
sapevo l'andatura,
la distanza fra un piede e l'altro esatta.
Era, la mia, gioia d'appartenerti,
orgoglio acceso da una somiglianza.
Ma ora che l'acqua si ritira evapora
la terra, si apre e crepita il tuo passo,
la luce si fa vento e rende sordi.
La pietra ha un tacere che non so
sulle creste di un vivere più adulto
e non su sabbia, su arida erba corri
senza rumore ch'io possa ripetere.
***
Vorrei che la parola decadesse
ebbra di pienezza nel crepuscolo
dell'espressione, quando è sufficiente
la linea, essenziale. O il silenzio.
Appartenere alle cose mediane
come l'autunno che torno a ricevere;
abbandonarsi allo svanire veloce
e dalle foglie imparare a cadere.
Roberto Carifi: ancora tre poesie da "Nel ferro dei balocchi"
Roberto Carifi: tre poesie da "Nel ferro dei balocchi"
Era questo che chiedevamo, dopo la cena di Capodanno,
di ripeterci avvicinarci ancora un poco
al confine... alle parole buone...
Ma la piazza è la stessa tomba di ferro,
prova a pensare, lo stesso ago da piantare
negli alberghi, nel cuore della tua gioia,
quella che ci frantuma ad ogni battito,
ancora la pioggia sulle fermate
ed una forza nel pomeriggio...
Come dirlo, ora, che ci troveranno
vicinissimi alla madre
mentre gli altri aspettano un matrimonio
e gli autobus sono lontani,
quasi nell'universo.
***
Pregano, adesso, in una sfera luminosa,
la terra fredda dove l'inesistenza sarà guardata
tra le stelle filanti e un fratello buono...
Compie due anni la tua infanzia,
i primi passi nel gelo, quando ti meravigli
davanti alle rovine e un silenzio benedetto
protegge la tua gioia...
Forse ti amano, anche lì, nell'occhiata fragile dei morti
e una mano invisibile ti indica la casa,
un lumicino accanto al tuo ritratto
e piangeresti se il tempo non fosse arato
da un amore più forte, l'obbedienza ad un inverno
dove di nuovo corri e ti sbucci le ginocchia
con quel balocco arrugginito, e ridi.
***
Quando l'ora si compie in una immagine
caduta oltre la siepe
e l'uscio si spalanca sulle facce
spezzano il pane
ed uno indica qualcosa
che non vede,
qualcosa di mai udito
che prende la parola
mentre l'altro, nel vuoto,
si allontana.
Paolo Gera legge su Casamatta "La ragione della polvere"
La polvere sa essere estremamente convincente, la sua ragione ha fatto riflettere dall’inizio dei tempi migliaia di uomini e migliaia di poeti ne hanno scritto nel corso dei secoli. La polvere ha sempre l’ultima parola, resta e si impadronisce delle case e degli oggetti quando i loro proprietari non ci sono più. A lei dedica le sue parole versificate anche Pizzolitto, in riflessioni esistenziali, poste con cura e perizia al di fuori del tempo. La caducità della vita, l’impermanenza della felicità, l’istante che riempie di meraviglia, che illude sulla sua possibile continuazione e poi si perde inevitabilmente nel rivolo dell’esistenza: questo l’assunto entro cui si muove la poesia di Pizzolitto.
Ho un Buddha nella posizione indicata come Bhumisparsha Mudra, su un tavolo rotondo cinese: ha dei lustrini sulla veste dorata che per un minuto al giorno, di pomeriggio, a seconda di come gira il sole, proiettano sui muri circostanti piccoli dischi di luce colorata. Per un minuto. Dopo questo momento glorioso torna l’ombra, la meditazione, l’oggettualità. Ma in quel minuto tutto sembra cantare. Così anche l’autore distende panorami di gravità ed enigmi la cui sicurezza ci ha sempre sconcertato, per contrapporre una breve pennellata di colore e di soavità:
Qualcosa resta in silenzio
e rimane nascosto
nel niente senza stelle
che ti riempie e consuma.
Anche in me attende
il vuoto straziante di Dio,
e questa ignobile,
mai sazia inquietudine.
Le api tracciano geometrie gioiose
tra i fiori di pesco e il cielo.
(Geometrie, p.10, vv. 1-10)
Questa poesia che medita sul mistero oscuro del nostro essere al mondo e dei sollievi istantanei che può offrire la natura intorno o una predisposizione effimera dell’anima, ha ascendenze remote, la Bibbia del Libro di Giobbe e l’Ecclesiaste, i mistici mussulmani, il grande poeta persiano Omar Khayyam che cantava lo stordimento come unica possibilità di sfuggire all’arbitrio del destino e al tiro di dadi di Dio. Emily Dickinson, naturalmente. In Italia questa lacerazione fra il dolore inesplicabile e certo della condizione umana e l’aspirazione alla consolazione dell’amore in purezza carnale, ha un suo forte testimone in Giovanni Testori.
Le parole in questo contesto non sono scelte come segno arbitrario, diversamente interpretabile dal lettore, ma circoscrivono un’esperienza comune e sono essenziali come una sentenza.
Stupende sono queste grida
che smembrano la notte,
stupendo è tutto ciò che sopravvive
all’affanno scarno delle cose,
la luce austera del mese di marzo,
nel niente colmo di misericordia
di un nuovo, disperato silenzio.
Dura un istante questa misera gioia.
(Dura un istante, p.13)
Anche il repertorio metaforico scelto dell’autore attinge a un repertorio in cui ciascuno di noi può riconoscersi. Sia che ci si accosti al mistero con spirito religioso o laico, resta comunque un paradigma di immagini che unisce la sensibilità della tradizione giudaica cristiana a quella orientale.
Io sono la foglia piegata
dalla brezza leggera,
io sono il sale sulla ferita,
io sono questo affannato correre
e morire.
La quiete di un istante,
nell’accadere del nulla.
(p.27)
Interessante è capire se i grani del rosario si snodano fra le dita sempre uguali oppure se questa smisurata invocazione, abbia un’evoluzione tra le sue varie parti. L’ora scandita è sempre la stessa, sempre questa misura mai colmata di pazienza da opporre all’assenza di un senso, oppure c’è in questa poesia un passaggio dall’ombra alla luce, dalla notte al giorno?
Nei silenzi impossibili
nella bianca innocenza
di una preghiera sussurrata.
Tutto è instabile e arde,
arde d’amore.
Tutto cade inesorabile
e si fa nostalgia.
(p.47)
Il libro ha varie sezioni, “Spasmi”, “Noi che abbiamo perso la fame”, “Dal profondo”, “Benedizioni” che contrappongono fin dai titoli questa polarità incessante fra l’angoscia e la trafittura del sole che ci ci inebria nonostante la sofferenza del nostro esserci. Ma è l’ultima sezione che insiste maggiormente sulla necessità di riconoscere nelle ferite dell’altro le proprie e nell’aprirsi dunque allo spirito della comprensione e della compassione. Fra tutte le figure create da Dostoevskij, una mi è particolarmente cara ed è quella tratteggiata nella figura del principe Miškyn, nel romanzo “L’idiota”. L’ultima sezione titolata da Pizzolitto PREKRASNYJ (LO SPLENDORE DELLA BELLEZZA), proprio questo personaggio richiama come orizzonte ultimo di riflessione e di possibile azione. In una sua lettera il grande scrittore russo, a proposito del suo progetto, usa questo termine per indicare l’uomo ‘assolutamente buono’ che dovrebbe essere protagonista del suo romanzo. Il modello cristologico di cui parla Dostoevskij è una declinazione dell’idea dell’uomo virtuoso e bello della Grecia classica, in cui il dettame dell’armonia è stato incrinato dalla coscienza del dolore, ma questa incrinatura piuttosto che una limitazione, è un ampliamento che irradia appunto ulteriore bellezza. Ma la vocazione estrema di ad aprirsi a tutto il dolore degli uomini e a glorificarlo attraverso la sua condivisione, non può essere visto dagli altri che come follia. Ancora oggi, mentre le immagini della contemporaneità si uniscono a quelle di una fede che pare trascorsa, lo scandalo resta aperto, aperta resta la frattura tra l’io e il tu che ci chiama da un luogo diverso dal nostro, radicalmente diverso dalle nostre abitudini.
I panni stesi al sole ad asciugare,
il cane che dorme sul tappeto
comprato ieri su ebay,
il ramo d’ulivo appoggiato all’icona
di un Cristo scalzo e bambino:
questi silenzi che, nell’attesa,
si fanno volto e preghiera.
Tu provieni dal niente lontano.
(p.117)
Paolo Gera