Rainer Maria Rilke: un estratto da "Lettere a un giovane poeta"

 






E se torniamo a parlare della solitudine, si chiarisce sempre più che non è cosa che sia dato scegliere o lasciare. 
Noi siamo soli. Ci si può ingannare su questo e fare come se non fosse così. È tutto. Ma quanto meglio è comprendere che noi lo siamo, soli, e anzi muovere di lì.
E allora accadrà che saremo presi dalle vertigini; ché tutti i punti, su cui il nostro occhio usava riposare, ci vengono tolti, non v'è più nulla di vicino, e ogni cosa lontana è infinitamente lontana.
Chi dalla sua stanza, quasi senza preparazione e trapasso, venisse posto sulla cima di una grande montagna, dovrebbe provare un senso simile: una incertezza senza uguali, un abbandono all'ignoto quasi l'annienterebbe.
Egli vaneggerebbe di cadere o si crederebbe scagliato nello spazio o schiantato in mille frantumi; quale enorme menzogna dovrebbe inventare il suo cervello per recuperare e chiarire lo stato dei suoi sensi. Così si mutano per colui che diviene solitario tutte le distanze, tutte le misure; di queste mutazioni molte sorgono d'improvviso e, come in quell'uomo sulla cima della montagna, nascono allora straordinarie immaginazioni e strani sensi, che sembrano crescere sopra ogni misura sopportabile.
Ma è necessario che noi consumiamo anche questa esperienza.
Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; anche l'inaudito, deve essere ivi possibile.