Matteo Munaretto: tre poesie da "Preparativi per l'arca"

 





Si riporta, per una questione di comodità, "l'allineamento a sinistra". Nell'originale, l'autore utilizza una differente collocazione delle parole nello spazio.



Suonano suoni mai sentiti
i gelsomini a tarda notte
a fine aprile,
di farfalle e di cascate

un mazzo di note, un pulviscolo
della voce,

quella
che cerchi e sogni tutta la vita
e adesso ti sfiora...

E ora
il silenzio perfetto
è lei che cerca in te.



***



È a qualche distanza da noi
- meno di quanto pensi -
è l'estate del mondo,
flagranza della vita,

è il sì
pronunciato dappertutto
da ogni cosa a ogni cosa in ogni istante.

Cancellerà le nostre male scritte
che hanno nascosto il vero
e finalmente avrà quello che è suo:

il sì
pronunciato dappertutto
da ogni cosa a ogni cosa in ogni istante.



***



La pioggerella è tenue


La pioggerella è tenue, è di quelle
cose che non offendono,
rare cose
silenziose

che pure sono qui.

Cerco come possano
esserlo le parole,

sapere l'arte
pura
posarsi
bene
dire inavvertibile,
sciogliersi in un brillio,

in questo sì

che tra le vie
semiombrose non si sa
come
spande un chiaro, una mattina
nuova,
un nome nuovo alle cose
quiete
odorose.

Rare cose
silenziose

a volte si confidano
un soffuso soffrire, l'offesa
a tutto il tenero dell'essere
che trema in loro
e forse è questo
tremare e resistere
la forza inerme che vince il male.

Venite, cose mansuete,
piovete,
salvate,
voi piccoli tocchi, respiri
sottili,
tenerezza e fedeltà,
forza inerme che sa
patire,
obbedire d'amore alla realtà.
Rare cose
silenziose.

Cerco anche qui tra questi fogli
d'acqua che carezzano leggeri
le vie ancora assonnate se
c'è
il punto di innocenza dove possano
esserlo le parole,
dove dire
e tacere sono una cosa
una pioggia
fine armoniosa.




Franco Loi: tre poesie da "Lader de Diu" (Quando Dio canta)



Le poesie originali sono in dialetto milanese. Per comodità, qui si riporta la traduzione in italiano.



Se mi addormento in me mi viene paura,

è come perdere la vista, chiudere un portone,

trovarsi di notte per una salita buia

dov'è l'ombra che io ero non ha più luce...

E dove sono? Quale aria mi ha mosso?

Più cammino e più mi gira la testa,

non sono più io ma un altro che dietro il muro

cerca Dio e lui si tiene nascosto,

forse scappato dietro di me dove c'è buio.




***




Si scivola su delle pietre che fanno paura

e non troviamo più la strada per tornare

- come oscuro il fogliame che matura a stento!

Che nebbia è la luce del nostro pensare! -

Camminiamo come ubriachi nella notte più tetra

e facciamo fatica a camminare, toccare...

Mi piacerebbe un giorno sognare la sera

una luce che canta e che fa cantare,

essere simile alla luce d'un'anima che vera

ti fa la vita senza mai logorarla...




***




Nel ventre della vita Dio ti fruga.

Come chiamarla questa spina che crea rose?

È come un principio, una fine, un'inquietudine,

una vespa che ti punge e t'invoca,

e tu, come i sordi e gli orbi, non rispondi.

Io Dio non so chi è, non so niente di lui...

... È come una voce di voce che parla dentro

E chiama dentro un corpo al nulla di lui.
 

Federica D'Amato: tre poesie da "A imitazione dell'acqua"

 






Che mai ti videro al fianco

di un fianco solare nei paraggi

di quella pagina chiamata amore.


Ma oggi non hai tempo,

oggi che qualcosa cade in dono

per te dalla guizzante memoria

luminosa dei tuoi vent'anni,

oggi non vedi l'ora vai a camminare

sul mare a vedere i chiari della gente

i segni in corso verso gli occhi,

hai tempo, dici oggi non ha tempo

il tempo c'è il sole non soffrire,

ci penserai più tardi al tardi che lesto

s'abbuia e divora tutte quelle cose

che mai farai in tempo ad amare.




***




Conoscere quella bellezza

lontano dal fatto, pure

vederti in trasparenza

nella filigrana del sole,

un giorno di vacanza:


tu non parli con me.


Eppure riconoscere quella bellezza

evocata dal momento, lì

solo per me

trafitta assenza in un poco

suono di presagi

imminenti, tu sposa

tu spina centifolia

di chiarore tra le

dita del saluto.




***




Avrei voluto essere

il primo mattino

il primo gelo di novembre

la prima volta che si vede

la realtà e somiglia a una montagna

o alla tua foto di quando avevi sei anni

la prima volta che hai pianto

perché tutto era già scritto.


La prima volta che a memoria

hai contato

da uno

fino

a dieci.

Jean-Claude Izzo: tre poesie da "Lontano da ogni riva"

 





Forse sono stanco. Di non aspettare niente. Appena immobile, come un cipresso. Sull'oblio, veglio. E la morte si interroga.

Mi ricostruisco una memoria con questi poveri cardi e pietre. La luce profonda come l'acqua mi rende l'avvenire impossibile. So tutto di ciò che brucia o disseta. Ma solo gli opposti, forse, cementano l'oggi, queste ore sfuggenti verso le quali le mie dita tendono.

Mezzogiorno: mi è sembrato di essere pronto per ricostruire la luce.
(...)



***



Il clamore delle ore
è in cima
al più alto cumulo di macerie.

I miei piedi nel l'ombra di un ruscello.

Il tempo sembra contenuto
in questa siccità
che asseta l'acqua stessa delle fontane.

Ci sono stati gli ultimi fuochi.
Non c'è più niente da bruciare,
né un ceppo né un tralcio.

La morte si compie:
stagione regnante
controsole.



***



Ora la Terra è nuda. Nozze: la luce spessisce la luce - il sole svia dal suo corso un torrente - dritto, immobile, accecato. Cerco: non sento ciò che tramano acqua e cielo, e la mia vita si interroga.

Vi sono segreti inaccessibili alla comprensione: l'accanimento a vivere nell'aridità mentre si esaurisce la speranza - il grano, e la mano che falcia, la lingua che nomina il grano.

Allora, scambiare la mia memoria contro la luce: mezzogiorno, economia delle parole.
(...)

Bianca Dorato, tre poesie da "Sël finagi"



Le poesie sono state scritte, in origine, in dialetto piemontese e poi tradotte in italiano. Per una questione di comodità si riporta qui la versione in lingua italiana.



Sulla pietra lunga



Sulla pietra lunga della tua soglia

fredda e limpida la rugiada -

e la notte veglia, cupa,

dentro il vuoto delle tue finestre.


Splendida la voce amorosa

fuggita lontano per sentieri d'erba,

suggello infuocato che chiude

il recinto della tua stagione.


Pura e solitaria, la luna

solleva allo sfavillare del tuo cammino

il respiro di pallide montagne:

immota, tu custodisci il silenzio.




***




Ore



Così a lungo la vampa del sole

ci ha posseduti qui sul dosso -

nell'inverno, ghiaccio che scioglie

a dicembre, fiori sbocciati


Bello l'alpeggio di legno e pietre

che tante stagioni ha conosciuto

e l'uscio che appena scricchiola

- d'un passo atteso si rallegra


Se verrà l'ombra, io non so:

così pregna di luce tutto intorno

è la neve - e sul colle lassù

splendore di sole che indugia


Se verrà l'ombra, un brivido

freddo sull'anima, io non so.

Ore di gioia e ore di tristezza,

quante, qui, già sono trascorse?


Solo impallidire, e non ancora crepuscolo,

e l'azzurro trasfuso nella neve.

Più bella ancora che il mezzogiorno

questa luce che quieta ci accompagna.


E come dolce, al ritorno,

ancora mescolare le orme:

e come chiara, nella sera

che giunge, la nostra traccia.




***




Io li conosco



L'ultimo schianto, forse, già spento sulle pietraie,

già compiuta ogni danza, già pagato ogni desiderio.

Già passati come bufera l'amore ed il pungolo

selvaggio: e vanno sicuri sulla neve dei pendii

allungo da valle a valle affondando le loro tracce.

Ha un tempo la follia, ed un tempo più lungo i passi

attraverso l'inverno, la fame e la pazienza:

io li conosco i loro luoghi lassù, dove il vento libera

dalla neve i loro pascoli, e gli steli dell'erba dorata

colgono luce prima di farsi nutrimento.

Bello deliziarsi lenti, senza rimpianto né desiderio,

d'erba e di luce insieme, là sul pendio ventoso:

godere del sole e tosto resistere alla gelata

di giorno in giorno presaghi del giungere della primavera.

Io li conosco, i loro luoghi lassù. Ma mi tormento qui, ferma,

come sasso di pietraia che il tempo non ha mutato.

Intatta davanti a me solo la nevicata bianca

e dentro di me, uguale, la bufera mai placata,

quel desiderio di sempre, quel pungolo bruciante,

confitto nell'anima che si strugge, brama che non mi abbandona.


 

Roberto Pazzi, altre tre poesie da "Un giorno senza sera"

 



La casa


Sto fra le parole e il nulla,
lavoro ad abitare la mia mente
ma la casa è ancora da finire,
mancano le stanze a nord,
l'ala del sonno,
perché non possono dirsi
camere da letto
quelle dove ho dormito
a sud, fulminato dalla
febbre del sogno
quando divorava l'incontro
prima che avvenisse.
Ora so dov'è più fresca
casa mia, in quale stanza
lasciare il cibo della mente
senza paura di ritrovarlo avariato.
Abitavo in un castello
e non lo sapevo,
la festa comincia adesso
che non posso più scegliere
le musiche, dovrò fidarmi
di chi inaugurerà la danza.
Da lontano mi vedo
alla finestra della mia mente.



***



L'amore cresce come l'erba



Non sei mai solo se le cose parlano,
i vestiti smessi nell'armadio,
le penne scariche sul tuo tavolo,
le federe dei cuscini,
il parquet della camera da letto
consumato dai sogni,
l'odore delle stanze che consacra
il ricordo di tante risate,
nelle carni di complici ombre
che si sono nascoste,
ma non ti hanno detto dove,
così sarà più ricca la sorpresa,
chissà, in un tram che sale
le colline di San Francisco,
o in un traghetto del lago Baikal.
Ti è capitato di sobbalzare
alla vista di sconosciuti
che parevano proprio loro
in giro per il mondo,
ma poi si sono voltati.
La ricerca e l'attesa sono la vita,
tu resta ben fermo dove sei,
contano sulla tua fedeltà
non sei più Orfeo che si volta
per paura che lei non ti segua,
hai imparato,
l'amore cresce senza che tu lo veda,
come non vedi crescere l'erba.



***



Dal pozzo della memoria



Mi ritorna tutto su,
dentro l'estate un'altra estate,
in una via le molte volte attraversate
piene di gente
con scarpe che non si portan più,
nei vestiti che passano di moda,
le martingale, i colli di pelliccia,
i pantaloni a zampa di elefante,
le camicie di popeline,
il gusto che della mente muta,
il sapore del vino che mente alla memoria
al fondo del bicchiere
chiama alla lingua i primi sorsi più golosi
e l'età bambina quando non potevo berne
"fa male ai grandi, figurati a te"
ammonivano a tavola.
Ora che posso bere quanto ne voglio
che posso andare dappertutto,
partire ogni momento
senza chiedere permesso,
mi pare bella solo l'età dei limiti
e dei permessi,
come dal fondo di un pozzo
guardavo me affacciato lassù in alto
che mi sforzavo a spiarmi,
sognavo laggiù quello che sono oggi quassù,
oggi che sono tutto quello che ho sognato.

Iosif Brodskij: tre poesie da "Poesie italiane"

 




Ripulito, stirato, il lenzuolo del golfo

freme coi suoi volants; l'aria incolore

si condensa un istante in piccione, in gabbiano,

ma si dissolve subito. Fuori dall'acqua,

barche, barconi, chiatte, gondole somigliano

a scarpe scompagnate, gettate sulla sabbia

che scricchiola sotto la suola. Ricorda:

in sostanza, ogni movimento è

spostamento del peso del corpo in altro luogo.

Ricorda che il passato non può iscriversi

senza residui nel ricordo, e che il futuro

gli è necessario. Ricorda bene:

l'acqua, soltanto l'acqua, sempre e ovunque

resta fedele a se stessa, insensibile

ad ogni metamorfosi, liscia, distesa

là dove non è più terraferma. E tutto il pathos

della vita, all'inizio, il mezzo, il calendario

che si sfoglia, la fine, eccetera, svanisce

in spume lievi, eterne, senza tinte.


Il duro, morto fil di ferro del vigneto

trema per la sua stessa tensione. E gli alberi

nel parco nero in niente si distinguono

dal muro, simile all'uomo che nulla ha più

da confessare, e, soprattutto, nessuno a cui farlo.

Imbrunisce. Silenzio, non c'è vento.

Scricchiolio di conchiglie, fruscio di canne

schiacciate, marce. Un barattolo preso a calci

vola in alto e scompare dalla vista.

Neppure dopo un minuto si distingue il suono

della sua caduta sulla sabbia umida.

Né tanto meno il tuffo.




***




Abbraccia l'aria pulita, come fanno i rami di questi pini:

fra le dita ne resta quanto sul vetro, sul tulle.

Ma dalle nubi non torna più azzurro l'uccellino,

e anche noi non siamo proprio dèi in miniatura.

Perciò siamo felici: siamo un niente. E cime,

ed orizzonti, eccetera, spezzano questa pelle liscia.

Corpo e rovescio dello spazio, comunque la si giri.

E perciò stesso noi siamo infelici.

Appòggiati piuttosto questo portico, attraverso

la camicia il muro rinfrescherà le spalle;

e guarda come il sole tramonta sopra parchi e ville,

e come l'acqua, maestra d'eloquenza,

scorre da fessure rugginose, e non ripete

nulla salvo la linfa che suona l'ocarina,

e salvo il fatto che cruda, fredda,

trasforma il viso in liquida rovina.




***




Scrivo questi versi, seduto all'aperto su una sedia bianca,

d'inverno, con la sola giacca addosso,

dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi

con frasi in madrelingua.

Nella tazza si raffredda il caffè.

Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi

la torbida pupilla per l'ansia di fissare nel ricordo

questo paesaggio, capace di fare a meno di me.

Nasce PORTOSEPOLTO, collana di poesia di peQuod


 

Vi arriva il poeta

e poi torna alla luce con i suoi canti

e li disperde


Di questa poesia

mi resta

quel nulla

d’inesauribile segreto


(G. Ungaretti)



Portosepolto è stata, anni or sono, una rivista cartacea che ha girato parecchio per Torino, nel primo decennio degli anni 2000.


Portosepolto, oggi, dopo più di quindici anni da quel tempo, diventa una collana di poesia, da me diretta, all'interno della casa editrice peQuod.


Portosepolto pubblicherà, nel corso dell'anno solare, tre sillogi: due su invito diretto da parte del direttore di collana, una in base alle proposte ricevute.


Per qualsiasi informazione, necessità di chiarimenti o eventuali proposte (inviare solo sillogi complete), potete scrivere a portosepoltopequod@gmail.com.


A presto, 


Luca

Luigi Fontanella: tre poesie da "Monte Stella"

 






Nato in una scorza di fuga.
Al tremore dei padri
di fronte ai nemici. Questa
fu la mia terra e la mia teca.
In un solo battito, acquista le ombre
che ti furono vicine.
Hai mani e occhi e il frusciare dei gelsi.



***



Piove.
Sento il singhiozzo del tempo
oltre questo giardino.
Ora vieni. Piega le tue ginocchia
d'aria. Raccogli la voce
di tua madre. Quanto gentile
quel suo rossetto profumato
a due millimetri dal tuo viso. La strada
a Salerno si rimpicciolisce
angusta e deserta.
Piega le tue ginocchia d'aria.



***



Mettere a posto ciò che posto non ha
lettere
sogni
desideri
fuggono in corsa, gocce di vita:
dono bambini in fila.
Schiamazzano in gesti e parole.

Devo essere passato qui un tempo.
Nessuno davanti alle porte.
Forse, mi dico, avremmo potuto sederci
nei pressi di questa fontana,
in questa piazzetta che mi è familiare
che oggi non sa più riconoscere se stessa.
Cerco di ricordarla. Una rondine
sfreccia improvvisa. Ora soltanto voce,
fiato
che indugia sulla bocca.

Inutile mascherarsi!
Sei solo tu a guardarti,
solo tu a ricordare
Man mano che ti separi
e la scena sfuma allontanandosi.